Il documento digitale giudiziario e le nuove frontiere processuali

Pubblichiamo l’interessante relazione dell’avv. Roberto Arcella, componente del GdL FIIF, tenuta al Convegno di Capri del 14 Ottobre 2017, organizzato dalla Scuola superiore della Magistratura,  Strutture territoriali di Napoli,  Salerno e della Corte Suprema di Cassazione, col patrocinio del Consiglio Nazionale Forense. 

              “Il Magistrato, le innovazioni organizzative e le nuove forme degli atti del processo”

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Capri, 14 Ottobre 2017

Il documento digitale giudiziario e le nuove frontiere processuali

di Roberto Arcella (Avvocato del Foro di Napoli – GdL FIIF)

Sommario

1.      L’essenza del documento informatico: lo scopo dell’atto processuale come documento informatico e la funzione delle regole tecniche.

2.      Le necessaria revisione delle regole tecniche del pct. 

3.      I documenti informatici come dati riutilizzabili

4.      I dati e le banche dati delle decisioni di merito

5.      La strutturazione dei documenti informatici giudiziari come strumento per l’attuazione della sinteticità degli atti

6.      I documenti informatici e la forma scritta: il documento è davvero “scritto”?

 

1.L’essenza del documento informatico: lo scopo dell’atto processuale come documento informatico e la funzione delle regole tecniche

Mi piace l’idea di approcciare il delicato quanto attualissimo tema dei documenti informatici, una volta tanto, non già dalle definizioni contenute nel C.A.D. o nel Regolamento eIDAS, quanto, più a valle, dalla norma generale che disciplina le “regole tecniche”: partirei, in altri termini, dalla normativa regolamentare cui rimandano l’art. 71 del C.A.D. e, quanto al processo civile telematico, l’art. 4 del DL 193/2009.

La previsione contenuta nell’art. 71  del C.A.D. è a mio modo di vedere cruciale per la comprensione di una peculiarità propria del diritto dell’informatica, nel quale la delegificazione è pressoché inevitabile per far fronte alle più che rapide evoluzioni tecnologiche, cui la norma primaria faticherebbe a star dietro. Ma ciò che più rileva in tale contesto sta nel fatto che le norme tecniche così poste in essere prendono a loro volta vita dal vissuto quotidiano della tecnica informatica, trasfuso negli standard.  

Di tale verità prende atto il legislatore laddove, al comma 1-ter dell’art. 71, ha statuito che   «Le regole tecniche di cui al presente codice sono dettate in conformità… alle discipline risultanti dal processo di standardizzazione tecnologica a livello internazionale ed alle normative dell’Unione europea».  Fatto sta che le discipline risultanti dal processo di standardizzazione consistono in consuetudini che, consolidatesi nella comunità ingegneristica, formano poi oggetto di raccolta in documenti descrittivi e danno luogo agli strumenti informatici di utilizzo quotidiano. Quelli che, tra questi ultimi, vengono ritenuti idonei e necessari all’utilizzo in determinati campi del diritto divengono poi parte di istituti normati.

Di questo fenomeno circolare ­ – che muove dagli standard tecnici per essere recepito in norme primarie, con successivo rinvio a regole tecniche a loro volta informate alle discipline risultanti dal processo di standardizzazione ­– non può non tenersi conto nella interpretazione delle norme del diritto dell’informatica e, soprattutto, nella valutazione della gerarchia delle fonti. Perché, se alla base della norma tecnica v’è una regola per così dire naturalistica, e come tale inderogabile, non vi sarà rango normativo primario che tenga ed in nome del quale si possa dichiarare la prevalenza della legge sul regolamento tecnico: la posta certificata, ad esempio, non potrebbe esistere se ad essa non preesistessero gli standard tecnici di riferimento relativi alla posta elettronica ed ai certificati elettronici. Così come certe leggi umane non possono che cedere il passo alle leggi naturali ed a quelle della fisica, la norma primaria non può che cedere il passo al principio informatico che l’ha dettata e che essa stessa pretende di disciplinare.

Ciò detto, un documento informatico quale «rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti» (o documento elettronico, secondo la definizione comunitaria, quale «contenuto conservato in forma elettronica, in particolare testo o registrazione sonora, visiva o audiovisiva») è tale solo se rispetti le regole tecniche di riferimento.  Queste, infatti, sono il mezzo attraverso il quale il documento si forma, viene reso usufruibile, suscettibile di percezione dai sensi umani, mediata dall’elaboratore elettronico, e conservato affinché mantenga nel tempo i caratteri di leggibilità, integrità, sicurezza, immodificabilità indispensabili affinché quell’insieme di bit svolga la propria funzione di “documentare”:  un documento non redatto in conformità di regole tecniche, certe ed uniformi, non potrebbe giammai svolgere la funzione che gli è propria, non essedo certo che domani, tra un anno o dieci anni il suo contenuto sarà ancora suscettibile di percezione e di utilizzo.

Tal è l’aspetto della digitalizzazione che, a mio modo di vedere, viene a torto trascurato nell’individuazione dello scopo dell’atto processuale in formato digitale. L’immaterialità delle informazioni oggetto di rappresentazione negli atti processuali digitali dovrebbe esser causa di maggiore sensibilità verso l’esigenza di documentazione dell’attività processuale in maniera sicura e duratura in funzione della garanzia costituzionale del giusto processo.  Un documento non assistito dalle caratteristiche di stabilità, immodificabilità, integrità e leggibilità nel tempo non si presta infatti (con la necessaria sicurezza) all’esame ed all’eventuale verifica critica del relativo contenuto nei gradi successivi di giudizio: facendo un passo indietro ed accostandoci al mondo analogico, ci si potrebbe chiedere se ci si debba fidare di documenti versati in un fascicolo processuale redatti, per esempio, sulla carta termica dei vecchi telefax, suscettibili di rapido deterioramento per effetto della sola temperatura esterna.

Il documento informatico, e soprattutto il documento informatico destinato alla documentazione del processo, deve quindi osservare sin dal momento della sua formazione quelle regole pensate affinché possa nel tempo mantenere inalterata la sua funzione.  Non a caso le regole tecniche sulla formazione (dpcm 13.11.2014) e quelle sulla conservazione (dpcm 3.12.2013), muovendo da principi comuni, contengono norme spesso tra esse sovrapponibili: un documento nasce in funzione della sua conservazione, nel rispetto delle regole tecniche[1].

Qui si innesta un tema di forte attualità nel processo civile, relativo alla patologia dell’atto processuale redatto in violazione delle regole tecniche. Per quanto appena detto, è evidente che la conoscenza o la conoscibilità “istantanea” del contenuto dell’atto processuale digitale, tale da consentire all’altra parte di approntare le proprie difese ed al giudice di apprenderne il contenuto, non può costituire l’unico parametro di valutazione, perché proprio la natura immateriale del documento informatico impone di riconsiderare il concetto di “scopo” dell’atto del processo, anche ai fini dell’applicazione dell’ormai inflazionato art. 156 del codice di rito: sotto tale profilo – ma solo sotto tale profilo – appare apprezzabile l’intenzione della discussa recente ordinanza della Suprema Corte, n. 20672/2017 che, seppur all’esito di un tortuoso ed inesatto percorso motivazionale, si pone il problema delle conseguenze della violazione delle regole tecniche, nell’alternativa tra nullità ed inesistenza dell’atto.

2.Le necessaria revisione delle regole tecniche del pct

Se quindi la regola tecnica non rappresenta un orpello finale, un dettaglio di stile da osservare, ma è essa stessa l’essenza del documento informatico, ne discende la necessità di una profonda riconsiderazione di quelle prescritte per il pct sotto almeno due profili: uno attiene ad evidenti imprecisioni in cui è incorso il legislatore tecnico e l’altro ad un problema di compatibilità delle stesse con il principio di non discriminazione, plurideclinato nell’ormai finalmente noto Regolamento europeo 2014/910.

Sotto il primo profilo, va vagliata con straordinaria urgenza la norma di cui all’art. 13 delle specifiche tecniche contenute nel Provv. DGSIA 16/4/2014, relativa ai formati documentali degli allegati, per un verso perché la norma confonde clamorosamente i “formati” documentali con le “estensioni” dei file, queste ultime, costituite da tre caratteri che seguono un punto al termine del nome file, essendo meramente indicative dei primi, agevolando l’individuazione del relativo software grazie al filesystem di Microsoft Windows, ma restando ad esempio del tutto irrilevanti in altri sistemi nei quali il formato – e quindi il relativo software di lettura – viene individuato grazie a brevi stringhe di codice (i magic numbers di Unix o i type code e creator code di MacOs). Correzione normativa questa che appare necessaria anche perché sul descritto equivoco si è fondato in larga misura lo svarione motivazionale in cui è incorsa la S.C. con la ricordata ordinanza 20672/2017.

Di diversa natura è invece l’auspicata apertura verso formati documentali attualmente non depositabili nel processo civile telematico, se non in aperta violazione del ricordato art. 13 e con stratagemmi tecnici degni del miglior Ulisse alle porte di Troia, quali quelli audiovisivi: occorre nel concreto prendere atto del fatto che una mole notevole di documenti, potenzialmente utili per acquisire verità processuali più prossime a quelle fattuali, consiste proprio nelle registrazioni audio e nelle riprese video, ormai attuabili da chiunque, in qualunque momento e senza la necessità di particolari mezzi, grazie all’utilizzo dello smartphone. Per altro verso, la mancata previsione di tali formati nell’ambito dei documenti informatici suscettibili di deposito ai fini probatori appare una chiara violazione del principio di non discriminazione sancito dall’art. 46 dell’eIDAS, secondo il quale “a un documento elettronico non sono negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica”.

Che i formati in esame non siano contemplati dall’art. 13 deve in teoria far presumere, allo stato, l’inidoneità del sistema informatico ministeriale ad operarne adeguata gestione e, in prospettiva, adeguata conservazione. Sicché, pur volendo ritenere raggiunto lo scopo mediante l’allegazione di simili documenti come files compressi (pur sempre in violazione del citato art. 13, comma 2) o addirittura come embedded audio-video pdf (senza considerare, per questi ultimi, i problemi di software di lettura non disponibili sui pc ministeriali od anche l’eventuale violazione del divieto di inserimento di elementi attivi), residuerebbe il non trascurabile dubbio in ordine alla capacità rappresentativa nel tempo di detti documenti. La soluzione, che non comporterebbe alcun carico per la finanza pubblica e men che meno particolari sforzi tecnici, è quella di verificare l’idoneità della struttura informatica ministeriale a gestire (e conservare) simili documenti, aggiornando la norma tecnica. Una volta tanto si può dire, senza voler utilizzare tale espressione come paravento per qualche mascalzonata legislativa, che ce lo chiede l’Europa!

3.I documenti informatici come dati riutilizzabili

Come emerge in maniera abbastanza netta dalle considerazioni che precedono, il diritto dell’informatica sta assumendo via via un ruolo sempre più centrale nel quotidiano dei giuristi. Ciò, a ben vedere, accade anche a prescindere dal processo civile telematico o da quello amministrativo, perché il processo di digitalizzazione è fenomeno sociale prim’ancora che giuridico.

In tale contesto sociale, economico e giuridico completamente nuovo occorre orientarsi nelle conoscenze per poter governare il cambiamento da giuristi: gli avvocati ed i magistrati, ciascuno nei rispettivi ruoli, in prima linea.

Con riferimento ad un’attività centrale in ambito processuale, qual è l’attività di documentazione di ciò che accade nel processo, il passaggio da documento analogico a documento informatico è graduale e va ancora perfezionato: l’idea di documento come res cartacea era ed è troppo radicata nella tradizione sociale ed il concetto di documento come insieme di dati ha fatto e fa ancora non poca fatica a fare breccia: il doppio fascicolo e le copie di cortesia ne sono la prova vivente.

Dal documento su carta all’idea del documento già cartaceo e riprodotto sul monitor di un personal computer – la scansione, pur sempre destinata al limitato utilizzo della sola lettura o, al massimo, alla traduzione in sequenze di parole grazie alla tecnologia, non sempre precisa, dell’OCR – occorre ora definitivamente transitare ad un documento informatico puro, fatto di dati, suscettibili di uso come tali e di riutilizzo, nell’accezione di tale termine quale definita dall’art. 2, lett. e)[2] del decreto legislativo n. 36 del 24 Gennaio 2006, richiamato peraltro anche nelle definizioni del C.A.D. all’art. 1, lettera n-bis

Che un documento informatico sia fatto di bit è affermazione che vale sia per le copie per immagine che per i documenti testuali. Questi ultimi hanno tuttavia molto di più: in un documento testuale le parole, le sequenze di testi, significanti e le relative connessioni logiche, linguistiche e semantiche sono a loro volta dati suscettibili di riutilizzo. E che si voglia privilegiare anche tale forma di riutilizzo del dato emerge a chiare lettere anche dalle specifiche tecniche del pct, ove è prescritto, sia dall’art. 12 per gli atti che dall’art. 19 bis, l’utilizzo del formato PDF «ottenuto da una trasformazione di un documento testuale, senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti»: il che non si riferisce evidentemente al solo copia-incolla che agevoli il lavoro del magistrato o dell’avvocato, ma anche e soprattutto ad un trattamento dei dati contenuti nei documenti informatici giudiziari che vada oltre il semplice uso ordinario dei documenti (memorizzazione, conservazione, lettura, stampa e via dicendo) e  che consenta, invece, diverse opzioni di strutturazione degli atti e dei provvedimenti ed anche operazioni di analisi e di trattamento del dato con l’ausilio delle macchine.

Ciò che vale per gli avvocati non vale (ancora) però per i magistrati: in attesa del varo delle nuove regole tecniche sui documenti e dell’obbligatorietà ex art. 40 C.A.D[3]. del deposito dei provvedimenti in formato digitale nativo anche per i provvedimenti del giudice, duole dover riscontrare un troppo elevato numero di provvedimenti depositati in forma cartacea (per quanto redatti con l’ausilio di strumenti elettronici!) ed acquisiti ai registri informatici solo attraverso la scansione ad opera del cancelliere.

4.I dati e le banche dati delle decisioni di merito

Proprio con riferimento ai provvedimenti del giudice, il riutilizzo del dato costituisce altro argomento di estrema attualità connesso al tema delle banche dati della giurisprudenza di merito distrettuale e nazionale (quest’ultima ancora allo stato progettuale nelle specifiche tecniche).

I documenti, selezionati dai magistrati con l’apposito flag, diventano infatti disponibili grazie all’utilizzo di un sistema di interrogazione webservice sia da parte degli altri giudici che degli avvocati, muniti di apposito software, previa autenticazione con certificato digitale. Il che costituisce strumento di diffusione delle conoscenze utile non solo allo snellimento del lavoro in sede di redazione dei provvedimenti ma anche e soprattutto in funzione deflattiva del contenzioso, permettendo agli avvocati di conoscere quale sia l’orientamento di questo o quell’ufficio giudiziario e di prevenire, ove possibile, la proposizione di giudizi il cui esito negativo sia prevedibile alla luce dell’espresso orientamento.

Ora, è evidente che in assenza di provvedimenti in formato digitale nativo tali banche dati non sono nel concreto realizzabili (o sono realizzabili solo a patto che la scansione dei provvedimenti avvenga con OCR, il che non assicura tuttavia la necessaria precisione del dato testuale): il primo passo è sensibilizzare tutti i giudici, anche a prescindere dal ricordato art. 40 CAD, al deposito dei provvedimenti in tale formato.

Il passo ulteriore è quella che il Direttore Generale dei Servizi Informativi del Ministero della Giustizia ha definito una “segmentazione per rappresentazioni cognitive del documento[4]: un provvedimento che, per esemplificare e semplificare, sia strutturato ad esempio in “epigrafe”, “parti”, “ragioni di fatto e motivi della decisione” e “pqm”, con le strutture accidentali del “principio di diritto”, “richiami giurisprudenziali” e “riferimenti normativi”, si presterebbe non solo ad una compilazione assistita ad opera della macchina o la ricerca testuale con operatori logici booleani, ma anche a procedimenti di estrazione automatizzata di parti di esso, anche epurate da dati personali soggetti alla particolare protezione di cui agli articoli 22  e 52 del Codice Privacy[5].

Estremizzando la spinta evolutiva, si può pensare al provvedimento giudiziario redatto in formato xml, pur sempre convertibile nel più comune pdf attraverso fogli di stile, strutturato nelle parti come sopra indicate o, al più, agli stessi dati integrati sotto forma di metadati nel documento, che possano consentire le operazioni di indicizzazione e la creazione di documenti nuovi (come, ad esempio, proprio l’archivio di giurisprudenza interamente anonimizzato) mediante estrazione logica dei contenuti.

In via più immediata e più empirica, una negoziazione di significati[6] testuali, introducibile senza particolari sforzi nei testi ai fini di una più corretta gestione, potrebbe riguardare convenzioni per la scrittura dei nomi delle parti: ad esempio, cognomi scritti tutti i maiuscolo e nomi con la prima maiuscola che seguano il cognome; codici fiscali da scrivere come sedici caratteri alfanumerici consecutivi senza spazi; indicazione del numero di ruolo della causa nel formato “R.G.: nnnnn/aaaa”. Accortezze queste che consentirebbero un trattamento dei dati testuali attraverso l’utilizzo del comando grep o espressioni regolari (Regex): a puro titolo sperimentale, è disponibile una applicazione web realizzata con l’ausilio dell’Avv. Claudio De Stasio (Foro di Grosseto) all’indirizzo http://www.studiolegalearcella.it/anonimizzatore.html  che, avvalendosi delle Regex, ricerca all’interno dei documenti pdf le occorrenze che, secondo alcuni criteri euristici, individuano dati personali, restituendo un documento testuale anonimizzato.  Oltre ad anonimizzare i dati personali, l’applicazione consente di prevedere nella stesura dei testi le parti da oscurare, inserendo prima del testo la stringa “#(”  ed alla fine “#)” (senza virgolette), sicché, ad esempio, nel contesto del testo che segue:

PINCO Pallino, rappresentato e difeso dall’avv. DELLA PENA Massimo, nel procedimemento R.G.: 01523/207, Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Suspendisse pharetra dapibus sem nec posuere. #(Nulla suscipit nunc et interdum tristique#). Curabitur varius, PINCO libero id suscipit elementum, massa ipsum venenatis mi, commodo pharetra sapien quam id mi. Vivamus suscipit, libero nec scelerisque pellentesque, metus velit euismod erat, nec elementum nunc felis ac nunc. Morbi eu turpis et augue lobortis sodales

resterebbero oscurati i nomi delle parti (Pinco Pallino), dell’avvocato, il numero di RG e l’intero periodo “Nulla suscipit nunc et interdum tristique”.

5.La strutturazione dei documenti informatici giudiziari come strumento per l’attuazione della sinteticità degli atti

Analogamente ai provvedimenti del giudice, la strutturazione dell’atto giudiziario dell’avvocato è strumento di particolare utilità ed efficacia.

Al di là del riutilizzo del dato da parte del giudice e/o dell’avversario, la strutturazione degli scritti difensivi costituisce, soprattutto nell’ambito dei documenti informatici, mezzo di chiarezza espositiva, di ordine sistematico della trattazione degli argomenti, divenendo funzionale all’utilizzo delle tecniche espositive di persuasione.

La sinteticità degli atti è esigenza sentita (divenuta vera e propria norma nel c.p.a., all’art. 3) per far fronte alla prolissità e l’oscurità degli atti processuali, indicata tra le cause primarie delle difficoltà di gestione del contenzioso. Il requisito in parola, tuttavia, si scontra spesso con la complessità delle fattispecie da illustrare, sia in fatto che in diritto, e con le consequenziali complicazioni in ordine all’esposizione delle argomentazioni nel contesto dell’atto giudiziario; e, di contorno, è lo stesso Legislatore a prescrivere talora, in una vera e propria contraddizione in termini, d’un colpo solo, sinteticità ed autosufficienza dell’atto.

In un contesto di così difficile gestione dell’equilibrio tra completezza e sintesi espositiva, strutturare gli atti di parte in titoli, sottotitoli, paragrafi, note ed indice[7] costituisce mezzo per agevolarne la lettura, anche sotto il profilo dell’accessibilità[8], ed è formidabile strumento di comunicazione delle tesi fatte valere, oltre che di ausilio alle tecniche espositive e di persuasione, che dovrebbero costituire parimenti bagaglio delle conoscenze dell’avvocato.

Ne è un esempio – eccetto che per le tecniche di persuasione, in questo caso per nulla utilizzate – questa stessa relazione, ammesso che chi abbia avuto la forza di leggerla fino a questo punto l’abbia fatto adoperando il documento informatico e non la sua stampa.

6.I documenti informatici e la forma scritta: il documento è davvero “scritto”?

Nel quadro degli scenari di novità che si schiudono per gli operatori del diritto, un cenno merita anche il concetto di documento scritto, profondamente mutato alla luce sia del C.A.D. e del relativo decreto correttivo di agosto 2016 e, soprattutto, del Regolamento eIDAS.

Come già ampiamente discusso in un articolo del Gruppo di Lavoro della Fondazione Italiana per l’Innovazione Forense, con le richiamate riforme è radicalmente mutato il concetto di forma scritta degli atti: con il principio di non discriminazione dei documenti elettronici viene infatti totalmente a cadere un concetto radicato nella nostra cultura giuridica, ovvero che la “forma scritta” sia soltanto e solo quella rappresentativa di parole e segni leggibili, percepibili dall’occhio umano, su un personal computer, su tablet od altro device.

Si tratta del principio dettato dall’art. 46, che  costituisce forse l’innovazione più significativa tra quelle introdotte dal Regolamento europeo: “a un documento elettronico non sono negati gli effetti giuridici e la ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica”.

A ciò va aggiunto che il comma 1-bis dell’art. 20 CAD, introdotto dall’art. 17 del dlt 179/2016, prevede adesso, in armonia col ricordato principio ex art. 46 eIDAS, che «L’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità»: quindi la forma scritta documentale digitale si ricollega, per espressa previsione normativa, non più necessariamente ad una sequenza di parole leggibili, tra esse connesse sul piano logico e lessicale, ma alle caratteristiche di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità del documento informatico.

Ancora più nel dettaglio, poi, l’art. 21 precisa, al comma 1, che «Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, soddisfa il requisito della forma scritta e sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità»: in altri termini, qualsivoglia contenuto memorizzato in forma elettronica (per richiamare la definizione dell’eIDAS) munito di una qualsiasi firma elettronica soddisfa il requisito della forma scritta. Ancora più nel dettaglio, se la firma elettronica è qualificata o digitale, la forma scritta è soddisfatta ad substantiam per gli atti previsti dall’art. 1350 nn. da 1 a 12 c.c., mentre per quelli previsti dal n.ro 13 di detta norma è sufficiente la firma elettronica avanzata (art. 21, comma 2-bis).

Leggendo tali norme in correlazione all’art. 46 eIDAS, si può affermare che anche un documento dal contenuto non testuale (ad esempio una fonoregistrazione od una videoregistrazione) munito di firma elettronica potrà essere valutato, in relazione alle sue caratteristiche di  qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità come documento scritto. Addirittura, se la firma apposta ad una fonoregistrazione o ad un videoclip è digitale o qualificata, la forma scritta non può neanche essere messa in discussione sul piano della validità ad substantiam dei negozi ex art. 1350 c.c. e, a fortiori, ad probationem.

Dopo il licenziamento intimato “per iscritto” via Whatsapp, avremo presto le domande di ingiunzione con documenti video costituenti prova scritta ex art. 633 c.p.c.

 

 

 

 


[1] Va per inciso ricordato che, nel disegno di decreto correttivo del CAD, depositato dal Governo l’8 settembre 2017 ai sensi dell’art. 1 comma 3 L. 7/8/2015 n. 124 («Entro dodici mesi dalla data di entrata in  vigore  di  ciascuno dei decreti legislativi di cui al comma 1, il Governo puo’  adottare, nel rispetto dei principi e criteri direttivi e  della  procedura  di cui al presente articolo, uno  o  piu’  decreti  legislativi  recanti disposizioni integrative e correttive») è prevista la modifica dell’art. 71 CAD: le “regole tecniche” si chiameranno “linee guida”, saranno adottate dall’AgID, previa consultazione pubblica da svolgersi entro il termine di trenta giorni, sentiti le amministrazioni competenti e il Garante per la protezione dei dati personali nelle materie di competenza, nonché acquisito il parere della Conferenza unificata, e conterranno le regole tecniche e di indirizzo per l’attuazione del CAD. La bozza di riforma, tuttavia, non riguarda l’art. 4 Dl 193/2009, di tal che per il pct si continuerà a parlare di “regole tecniche”.

[2]  Riutilizzo: l’uso del dato di cui è titolare una pubblica amministrazione o un organismo di diritto pubblico, da parte di persone fisiche o giuridiche, a fini commerciali o non commerciali diversi dallo scopo iniziale per il quale il documento che lo rappresenta è  stato prodotto nell’ambito dei fini istituzionali

[3] La miniriforma del CAD di agosto 2016 ha visto l’introduzione di una norma – l’art. 2, comma 6 – che ha affermato la specialità dell’impianto normativo del PCT rispetto al CAD, statuendo che le norme di quest’ultimo sono applicabili anche al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario «in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico».

Tale norma, ulteriormente delineando l’ambito applicativo oggettivo del CAD, costituisce del resto corollario del precedente comma 2, che tratteggia invece il quadro dei soggetti destinatari del codice prevedendo che le disposizioni in esso contenute «si applicano alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165»  e, quindi, anche all’amministrazione della Giustizia.

Tra le norme del C.A.D. quella che forse riveste portata maggiormente innovativa è l’art. 40 del C.A.D. secondo cui «Le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti, inclusi quelli inerenti ad albi, elenchi e pubblici registri, con mezzi informatici secondo le disposizioni di cui al presente codice e le regole tecniche di cui all’articolo 71».

La norma in parola avrebbe dovuto avere piena applicazione a partire dall’11 Agosto 2016, ovvero dalla scadenza del termine di diciotto mesi previsto dall’art. 17 del dpcm 13.11.2014 per l’adeguamento dei sistemi di gestione documentale informatica delle pubbliche amministrazioni.  Tuttavia, come osservato nel paragrafo che precede, l’efficacia di tale norma è stata indirettamente sospesa dall’art. 61 del dlt 179/2012, che aveva fissato un termine di quattro mesi (scaduto invano il 14 gennaio 2017) per l’aggiornamento e l’adeguamento delle regole tecniche, stabilendo altresì che fino all’emanazione dell’aggiornamento delle regole sui documenti restasse sospeso il connesso obbligo delle pubbliche amministrazioni di provvedere all’adeguamento delle proprie infrastrutture informatiche.

Ciò significa che una volta approvate le nuove regole tecniche sui documenti informatici, cesserà la causa di sospensione prevista dall’art. 61 del dlt 179/2016 ed anche per i provvedimenti dei Giudici, così come per tutti gli atti e provvedimenti della P.A., scatterà l’obbligo di formazione digitale dei documenti.

Né si dica che esiste una norma del pct che dispone diversamente, e men che meno si dica che tale norma è quella di cui all’art. 16 DM 44/2011, la quale prevede che il provvedimento del magistrato possa essere in formato cartaceo e che in tali casi, il «cancelliere o il segretario dell’ufficio giudiziario ne estrae copia per immagine in formato PDF».  A tale norma non pare potersi attribuire carattere derogatorio rispetto alla disciplina generale del CAD, prevedendo esso soltanto una modalità di acquisizione documentale nella prospettiva della conservazione sostitutiva dei provvedimenti già resi in formato cartaceo, vale a dire una modalità attuativa del precetto di cui all’art. 22, comma 5, C.A.D..

Si evidenzia che la tesi qui sostenuta appare condivisa anche alla luce del tenore dei quesiti posti dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul livello di digitalizzazione e innovazione delle pubbliche amministrazioni del 19/9/2017 (cfr. http://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg17/attachments/documenti_acquisiti_commissione/documento_pdfs/000/000/036/AL-GIUSTIZIA2.pdf , pag. 7).

 

[4] P. Liccardo, in sede di audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sul livello di digitalizzazione e innovazione delle pubbliche amministrazioni, in data 19/9/2017, video disponibile qui http://webtv.camera.it/evento/11799, (cfr. dal minuto 52:25)

[5] In tal senso, cfr. Corte di Cassazione – Sentenza n. 10510/2016 del 20/5/2016

 

 

 

[6] P. Liccardo, ibidem

 

 

 

[7] Senza contare l’utilizzo dei collegamenti ipertestuali degli atti ai documenti ad essi allegati, che consentono ai giudici di avere contezza immediata del contenuto dell’allegato richiamato nel corpo dell’atto.

 

 

 

[8] Nell’accezione ex DM 8/7/2005, emanato ai sensi della Legge 4/1/2004 n. 4

 

 

 

 

 

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